Fiori di Librino
Ricordo una semplice frase detta un giorno, a Librino, da Antonio Presti durante il viaggio in Sicilia… verso Librino, 2004, di cui parleremo tra poco, allo scrittore inglese Jonathan Coe: «Non voglio le fogne, voglio i fiori per Librino». I fiori, la bellezza, quello che la politica, il potere, non vogliono o non possono dare. E di cui, forse, a Librino c’è altrettanto bisogno che delle fogne. Perché la possibilità che qualcosa cambi, e cambi sul serio, si annida a un livello profondo della sensibilità. Una sfera che può essere toccata più che dalle infrastrutture, sia pure necessarie, da una visione diversa delle cose, da un modo “altro” di guardare le cose stesse.
Da un dono. Da un fare. E da un fiore.
I fiori erano già arrivati con i poeti che, nel 2001, avevano letto le loropoesie nelle scuole e nelle case, sul sagrato della chiesa che, guidata allora con sagacia e ironia da padre Giuseppe Coniglione, si apriva a queste forme inedite di incontro, le quali, da luoghi fissi, sconfinavano sulla mobilità dei treni che partivano da Catania e giravano per la Sicilia per poi tornare nella città etnea, o meglio a Librino. quello era il treno dei poeti: L’offerta della parola: poeti in treno, un viaggio a bordo della poesia dove poeti laureati come Mario Luzi, Edoardo Sanguineti, valentino Zeichen, Maria Luisa Spaziani, Bianca Maria Frabotta, valerio Magrelli e molti altri leggevano i loro versi sui vagoni ferroviari.
Ma soprattutto i poeti leggevano le loro opere davanti a un pubblico dapprima incredulo e poi stupefatto, divertito ed emozionato, coinvolto e irriverente, che prendeva molto sul serio quei furasteri che viaggiavano sui loro stessi convogli e arrivavano nelle loro case ma, al tempo stesso, com’è costume da quelle parti, li dileggiava bonariamente. Un pubblico fatto di studenti, mamme, insegnanti, pochi uomini e molti bambini. Gli stessi che, in altra occasione, erano stati coinvolti per disegnare, nel 2002, un chilometro di tela grezza con tutti i colori del mondo e soprattutto la loro fantasia che forse, fino ad allora, aveva trovato poche possibilità d’esprimersi così liberamente.
E ancora gli stessi che, nella sorpresa generale, avevano ricevuto gli auguri di Natale dalla signora Franca Ciampi e che nella loro scuola avevano danzato, orgogliosi e visibilmente emozionati, davanti a Claudia Cardinale il ballo che fu di Angelica del Gattopardo, indossando, questa volta nel 2003, eleganti vestiti cuciti appositamente dalle mamme per l’occasione. E gli stessi, ancora, che avevano interpretato 500 spot per Librino, operazione, a mio parere, tra le più efficaci e intelligenti condotte da Presti.
Qual è il linguaggio in cui oggi ci si riconosce di più e, in particolare, quello in cui si riconosce una popolazione non propriamente acculturata e che conduce una vita per lo più standardizzata, interrotta da sparuti elementi di novità? La Tv, naturalmente. Meglio, poi, se nella versione pubblicitaria: rapida, efficace, seducente. Così Antonio Presti aveva cominciato a chiedere ai poeti che aveva conosciuto in occasione dei reading e del treno di recitare i loro versi davanti a una telecamera con l’obiettivo di realizzare degli spot per Librino che sarebbero stati trasmessi dalle Tv locali, interrompendo la programmazione proprio come fanno gli spot, ma senza che la produzione, Fiumara d’Arte, pagasse un centesimo.
Nel progetto, infatti, sono stati coinvolti il Giornale di Sicilia e TGS di Palermo e La Sicilia, Antenna Sicilia e Telecolor di Catania. I poeti avevano recitato i loro versi preceduti e accompagnati da una copertina: 500 spot per Librino. E la storia aveva funzionato a tal punto che l’iniziativa era andata cambiando e si era aggiornata in corso d’opera, come spesso accade nei progetti targati Fiumara d’Arte. Presti aveva chiamato registi e filmaker perché pensassero a degli spot che avessero come protagonisti i bambini di Librino, la loro vita, la scuola, gli insegnanti,
il prato dove giocavano, i grattacieli dove vivevano, l’unico parrucchiere dove andavano per tagliarsi i capelli, il laboratorio di ceramica e quello di tessitura dove qualche donna passava il suo tempo tra aghi e fili, ma soprattutto i loro sogni. Era nato così uno straordinario repertorio di immagini, piccoli sketch della durata di sessanta secondi che raccontavano un intero mondo che mai ci si immaginerebbe di scoprire se si desse ascolto alle cronache che si raccontano di un Librino Bronx. E che invece è allegro, fresco, ironico. vitale. Riconoscersi in Tv, sapere che il proprio volto, i propri amici, che proprio quel mondo che in quello stesso istante corre sullo schermo di una casa di Librino va in onda a Catania centro, ad Acitrezza, nell’hinterland etneo, ha dato a quei bambini e a quella gente una forza inedita. Una dignità sconosciuta prima. Finalmente si era alla pari con gli altri. Anzi, si era in Tv, mentre gli altri erano a casa a guardarti!
Un sentimento nuovo che alcuni di loro avevano già conosciuto quando, anni prima, era arrivato un fotografo, Massimo Siragusa, a scattargli dei ritratti che poi erano diventati delle gigantografie, incollate alle pareti, sotto gli stucchi e quel che rimane degli affreschi settecenteschi, di Stesicorea. Qualche mese prima erano iniziate le attività promosse da Presti a Librino, gli incontri con i poeti, l’idea di intensificare i laboratori scolastici avvalendosi del contributo di nuovi talenti e nuove idee e i bambini avevano
cominciato a conoscere quello strano personaggio che voleva portargli i fiori, che chiedeva di entrare nelle loro case per sapere che rapporto avessero i loro genitori con la Bellezza. E quando poi questi stessi bambini erano stati invitati nella Casa d’Arte per il giorno dell’inaugurazione dove una delle installazioni era fatta con i loro ritratti, ci erano andati portandoci i genitori, non propriamente frequentatori abituali del centro di Catania, mostrandogli con orgoglio che loro erano i protagonisti di quella festa che si svolgeva addirittura a piazza Stesicoro, a Catania centro!
La popolazione più giovane di Librino, compresi gli studenti delle medie, ha beneficiato però di altri fiori. Nel 2004 Antonio Presti ha riattualizzato il Grand tour con cui a partire dal Seicento gli intellettuali dell’epoca scendevano in Italia per compiere il loro viaggio di formazione, nel quale il Sud rivestiva un ruolo non secondario. Era nato così viaggio in Sicilia… verso Librino, inizialmente pensato affinché ognuna delle nove province fosse toccata da uno scrittore internazionale, che poi terminasse il suo tour a Librino. Era lì, a quei ragazzi, ai loro genitori, che scrittori di fama internazionale dovevano riportare l’esperienza di quei giorni passati in Sicilia, non a scoprire rovine e a stupirsi della forza accesa della natura, ma a conoscere la verità del tempo di oggi, i guasti, le ferite e la bellezza. Per le solite ragioni di budget e per i limiti dell’organizzazione – per l’uno e per l’altra Presti si affida sempre a risorse proprie – anziché nove, gli scrittori sono stati sette: il messicano Paco Ignazio Taibo II a Gela, l’israeliano Meir Shalev a Catania, il russo Sergej Bolmat nella città e nella provincia etnea, l’algerino Rachid Boujedra a Caltagirone, il cileno Hernán Rivera Letelier a Enna, l’inglese Jonathan Coe a Palermo e la maliana Aminata Traoré ad Agrigento. In ogni città l’accoglienza e l’interesse sono stati vibranti, i ragazzi delle scuole hanno organizzato recite, danze, hanno prodotto disegni che hanno avuto per oggetto i temi dei romanzi dei rispettivi autori, i quali, a loro volta, erano coinvolti e travolti da tanto entusiasmo. Perché in territori dove non c’è niente basta poco per accendere gli animi e quelli siciliani, di animi, sono particolarmente infiammabili. Alla fine di quest’esperienza gli scrittori approdavano a Librino, dove il tutto si concludeva concettualmente e materialmente. Per quei ragazzi la loro presenza era cibo per la mente e la città satellite di Catania diventava la meta di un viaggio che aveva una forte risonanza mediatica – se ne interessarono stampa e televisioni – ma soprattutto interiore, non solo per i ragazzi, ma a volte anche per gli scrittori. «Sono partito bambino e in una settimana sono diventato uomo», ha commentato Jonathan Coe, tra verità e ironia, la sua permanenza a Palermo. Ma forse l’esperienza decisiva è stata che tutti questi illustri ospiti, come prima i poeti, terminavano il loro viaggio nelle scuole di Librino. Il fatto che uno scrittore di fama internazionale, un artista che aveva vinto premi ed era stato ospite nei vari angoli del globo arrivasse a Librino, faceva vedere la scuola, dove quei ragazzi passavano buona parte del loro tempo, sotto un’altra luce. Creava un senso di appartenenza, un’identità con quel luogo, una dignità, prima impossibile da visualizzare. La dignità è un punto di snodo decisivo nell’approccio a Librino e nella concezione della vita di Antonio Presti. Lui la traduce in termini di Bellezza, dove si incrociano, come spesso accade nelle sue imprese, un piano alto, speculativo, con uno popolare, empirico. “Io sono bello” è lo slogan che già all’inizio del 2000 accompagna le prime attività a Librino. Presti pensa finanche alla possibilità per gli abitanti del quartiere di scaricare immagini scattategli da fotografi di fama che, attraverso un complicato meccanismo, dovrebbero comparire sulle facciate cieche dei grattacieli. L’abitante di Librino, pensa lui, forse arriverà a dire «io sono bello», che significa «non sono quella feccia che dicono, ho diritto di cittadinanza in questo luogo». E soprattutto: «Io ho dignità di persona». E lo farà guardandosi in quei ritratti per la prima volta con occhi presumibilmente diversi, ma al tempo stesso riconoscendosi come abitante di quel luogo divenuto importante agli occhi altrui per la presenza di artisti, fotografi, scrittori e altre figure internazionali. E questo, se vogliamo, è il piano empirico. “Io sono bello”, quindi, come un mantra recitato da 100 000 persone e come metafora d’identità. La bellezza, il suo potere attrattivo e trascinante, come collante di appartenenza, sebbene in quest’idea convivano anche elementi spuri, perché sappiamo bene oggi quanto la concezione della bellezza sia inquinata da scorie di non autenticità, residui di ordine cosmetico. E di nuovo siamo sul piano empirico della faccenda. In ogni caso “io sono bello” è una metafora efficace, che attrae e incuriosisce e che si può dilatare fino ad affermare provocatoriamente che “Librino è bello”, che è quanto si legge nel centro di Catania in quei grandi pannelli gialli che pendono dalla finestre della Casa di piazza Stesicoro.
Ma torniamo a quel senso d’identità maturata in una scuola visitata da importanti scrittori. «Che fai, non ci dai da mangiare a questi ragazzi?», ha risposto un giorno Antonio Presti alla mia osservazione che forse rischiavano di essere troppi i progetti avviati a Librino e che, chissà, anche i ragazzi, i bambini probabilmente faticavano a stare dietro a quel bombardamento, sia pure positivo, di esperienze cui erano sottoposti. Perché, rimanendo nella metafora del cibo, a un certo punto, fra il 2005 e il 2006, si erano trovati a gestire un progetto dal titolo Il pane non si butta. In realtà si trattava di bandiere, bandiere etiche per la precisione, anzi di quel che restava di queste dopo che erano state dapprima messe in mostra al Monastero dei Benedettini nel 2005, frutto del lavoro di 50 scuole a cui per la prima volta avevano collaborato quelle di Librino e quelle del centro di Catania. Erano il risultato del progetto 500 bandiere per essere città, che dopo erano state smontate e reinstallate per quattro mesi sui pali dell’asse dei servizi, la tangenziale della città etnea e alla fine, consunte, erano state cucite in patchwork ed esposte nelle scuole. Il pane non si butta, appunto. Ma, anzi, emigra. Perché l’anno dopo, nel 2007, e per tre anni di fila, quegli studenti le bandiere etiche le hanno collocate all’ospedale vittorio Emanuele di Catania e al Policlinico di
Palermo, mentre altre 150 scuole, tra Palermo e provincia, sono state messe a lavoro per produrre mille bandiere. Il tema, questa volta, era uno solo e si trattava di un’altra idea per ancorare l’arte a una dimensione pubblica e sociale, per farne una possibilità d’esistenza diversa, e accessibile a molti. Il tema era l’acqua, che a Palermo ha la forma di un fiume rimosso oltre che degradato: l’Oreto. L’obiettivo era ripristinare le condizioni originarie di questo fiume: un corso d’acqua che, nascendo da una sorgente situata ad Altofonte, paese tristemente noto per l’efferato omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, rapito e sciolto nell’acido da componenti del clan Brusca, scorre per pochi chilometri e arriva alla periferia di Palermo dove per anni è stato usato come discarica a cielo aperto e scelto dalla mafia per nascondervi le armi.
A Palermo, quindi, il fiume Oreto, da pura sorgente che pare uscita da una pittura di paesaggio settecentesca e che dà da bere a tutto Altofonte, diventa sporco, un torrente putrido e limaccioso. Attraverso il progetto delle bandiere Io sono acqua e Io sono il fiume Oreto dell’umanità, nelle quali il degrado del fiume è stato preso a simbolo dell’inquinamento che la mo hanno scoperto l’esistenza di questo fiume, di cui in città si evita di parlare. I ragazzi sono andati sul greto, lo hanno guardato e hanno cominciato a desiderare che fosse diverso. Ma soprattutto lo hanno riportato dentro il loro orizzonte di vita.