La dimensione etica dell’arte

Come accade anche in altre realtà italiane e straniere, il progetto di ricostruzione del paesaggio attraverso l’arte si sposta progressivamente dall’ambiente naturale a quello urbano. qui, infatti, è possibile identificare con maggiore nitidezza quelle territorialità su cui intervenire a partire da un elemento decisivo: l’utenza. Il paesaggio naturale sconta, infatti, evidenti problemi di isolamento, per via della scarsità dei destinatari naturali degli interventi e, nell’ipotesi più radicale di Arte Pubblica, dei suoi stessi attori, fatto che rischia di spingere l’Arte Ambientale verso una deriva auto- referenziale, con esiti non tanto diversi dalla grandiosità solipsistica della Land Art, sebbene, come abbiamo visto, le premesse siano molto diverse.

Per quanto riguarda Antonio Presti, a questo quadro si aggiunge un altro elemento, piuttosto decisivo della sua personalità e della sua biografia. La creazione di Fiumara d’Arte rispondeva a un’urgenza etica: il ripristino, o meglio la riscrittura, delle condizioni naturali di quell’area. La scelta di fare un albergo, ove l’arte fosse accessibile a tutti, proseguiva in altra forma quest’ impegno, al quale però, evidentemente, mancava qualcosa: la grande scala, l’urgenza etica moltiplicata per molti, il confronto con una

comunità in carne e ossa e, nella fattispecie, come vedremo, anche dura, tosta, a rischio. Così Presti si sposta a Catania, affitta una grande casa nel centro storico che fin da subito comincia ad affidare alle cure degli artisti che, di anno in anno, la cambiano, trasformandone gli abituali connotati per farne una dimora extra-ordinaria: la Casa d’Arte Stesicorea, che prende il nome dalla piazza Stesicoro sulla quale si affaccia. Ma, in realtà, quello che più importa di questa casa non è tanto l’interno e quello che vi accade – che pure, come sempre succede nelle imprese di Presti, richiama pubblico, stampa, mondo dell’arte e curiosi – quanto quello che vi è fuori.
Dalle finestre di Stesicorea pendono alcuni grandi pannelli in cui, in varie lingue, con caratteri cubitali neri su sfondo giallo ben visibile anche da lontano, c’è scritto “Io amo Librino – J’aime Librino – I love Librino – Yo quiero Librino – Hich libe Librino”. E così via dichiarando amore.

Che cos’è Librino?

Gli abitanti di Catania lo sanno bene: è quel bubbone, quella ferita aperta, quella superfetazione di quasi 100 000 abitanti che è cresciuta come un parassita sulla bella città etnea, acclamata come la più avanzata della Sicilia. La cattiva coscienza della città, insomma, freddamente ribattezzata “città satellite”. Rimossa, eppure lì presente, addirittura in costante crescita. Librino ha una lunga storia. Nasce per essere una periferia modello su disegno dell’architetto giapponese Kenzo Tange, così come negli stessi anni – e per la stessa concezione urbanistica, che individua nel calcolato sketch architettonico il profilo razionale che dovrebbero assumere le nuove periferie: vittorio Gregotti progetta lo Zen di Palermo e Mario Fiorentino idea il Nuovo Corviale, esempio di unità urbana autosufficiente nella forma di un serpentone di cemento di un chilometro che corre lungo una periferia romana. Librino, in realtà, come anche lo Zen di Palermo, non sarà mai completato. Le studiate geometrie che Kenzo Tange aveva pensato per riquadrare l’Etna da un lato e la prospettiva del mare dall’altro, risultano stravolte dalla mancata realizzazione del progetto e dal parallelo ingresso della popolazione nei grattacieli ancora non dotati di servizi.

Librino è una “neoformazione”, dove in filigrana ancora si legge quella che doveva essere la funzionalità del disegno, ma che si completa spontaneamente e si sviluppa in verticale, lasciando la superficie priva non solo di servizi, ma di una soglia civica, di criteri di dignità. D’altra parte, come spesso accade in Sicilia, Librino è un prezioso laboratorio umano di cui non sono state ottimizzate le potenzialità. vi lavorano alcuni insegnanti e altri operatori sociali, che lo scelgono preferendolo alla comodità della Catania centrale e non malavitosa. Sì, perché nel frattempo Librino si conquista una cattiva fama: è un quartiere a rischio, ricettacolo della delinquenza locale, così che quella che doveva essere la nuova periferia modello viene ben presto criminalizzata.

È in questo contesto che Antonio Presti decide di operare. Un progetto tutto in salita, evidentemente, di cui è interessante notare anche le modalità operative. Per certi versi, Librino potrebbe essere il luogo ideale per verificare gli assunti di quella concezione che vede nella periferia la possibilità di una robusta azione politica contro la centralità snaturante del potere incarnato da Catania. Gli ingredienti ci sono tutti: l’emarginazione rispetto alla città, l’emergenza criminale, una larga presenza di giovani, la mancanza di servizi, la miccia di una possibile protesta sociale che corre sottotraccia e che potrebbe deflagrare da un momento all’altro se su tutto questo non si esercitasse un capillare controllo politico da parte del potere centrale. E ci potremmo immaginare che Presti faccia leva sugli elementi su citati con l’obiettivo di recuperare quest’area dal degrado, alleandosi magari con le forze politiche più sensibili presenti nel quartiere o con volenterosi e volontari di Catania. E invece no.

Fiori di Librino

Ricordo una semplice frase detta un giorno, a Librino, da Antonio Presti durante il viaggio in Sicilia… verso Librino, 2004, di cui parleremo tra poco, allo scrittore inglese Jonathan Coe: «Non voglio le fogne, voglio i fiori per Librino». I fiori, la bellezza, quello che la politica, il potere, non vogliono o non possono dare. E di cui, forse, a Librino c’è altrettanto bisogno che delle fogne. Perché la possibilità che qualcosa cambi, e cambi sul serio, si annida a un livello profondo della sensibilità. Una sfera che può essere toccata più che dalle infrastrutture, sia pure necessarie, da una visione diversa delle cose, da un modo “altro” di guardare le cose stesse.

Da un dono. Da un fare. E da un fiore.

I fiori erano già arrivati con i poeti che, nel 2001, avevano letto le loropoesie nelle scuole e nelle case, sul sagrato della chiesa che, guidata allora con sagacia e ironia da padre Giuseppe Coniglione, si apriva a queste forme inedite di incontro, le quali, da luoghi fissi, sconfinavano sulla mobilità dei treni che partivano da Catania e giravano per la Sicilia per poi tornare nella città etnea, o meglio a Librino. quello era il treno dei poeti: L’offerta della parola: poeti in treno, un viaggio a bordo della poesia dove poeti laureati come Mario Luzi, Edoardo Sanguineti, valentino Zeichen, Maria Luisa Spaziani, Bianca Maria Frabotta, valerio Magrelli e molti altri leggevano i loro versi sui vagoni ferroviari.

Ma soprattutto i poeti leggevano le loro opere davanti a un pubblico dapprima incredulo e poi stupefatto, divertito ed emozionato, coinvolto e irriverente, che prendeva molto sul serio quei furasteri che viaggiavano sui loro stessi convogli e arrivavano nelle loro case ma, al tempo stesso, com’è costume da quelle parti, li dileggiava bonariamente. Un pubblico fatto di studenti, mamme, insegnanti, pochi uomini e molti bambini. Gli stessi che, in altra occasione, erano stati coinvolti per disegnare, nel 2002, un chilometro di tela grezza con tutti i colori del mondo e soprattutto la loro fantasia che forse, fino ad allora, aveva trovato poche possibilità d’esprimersi così liberamente.

E ancora gli stessi che, nella sorpresa generale, avevano ricevuto gli auguri di Natale dalla signora Franca Ciampi e che nella loro scuola avevano danzato, orgogliosi e visibilmente emozionati, davanti a Claudia Cardinale il ballo che fu di Angelica del Gattopardo, indossando, questa volta nel 2003, eleganti vestiti cuciti appositamente dalle mamme per l’occasione. E gli stessi, ancora, che avevano interpretato 500 spot per Librino, operazione, a mio parere, tra le più efficaci e intelligenti condotte da Presti.

Qual è il linguaggio in cui oggi ci si riconosce di più e, in particolare, quello in cui si riconosce una popolazione non propriamente acculturata e che conduce una vita per lo più standardizzata, interrotta da sparuti elementi di novità? La Tv, naturalmente. Meglio, poi, se nella versione pubblicitaria: rapida, efficace, seducente. Così Antonio Presti aveva cominciato a chiedere ai poeti che aveva conosciuto in occasione dei reading e del treno di recitare i loro versi davanti a una telecamera con l’obiettivo di realizzare degli spot per Librino che sarebbero stati trasmessi dalle Tv locali, interrompendo la programmazione proprio come fanno gli spot, ma senza che la produzione, Fiumara d’Arte, pagasse un centesimo.

Nel progetto, infatti, sono stati coinvolti il Giornale di Sicilia e TGS di Palermo e La Sicilia, Antenna Sicilia e Telecolor di Catania. I poeti avevano recitato i loro versi preceduti e accompagnati da una copertina: 500 spot per Librino. E la storia aveva funzionato a tal punto che l’iniziativa era andata cambiando e si era aggiornata in corso d’opera, come spesso accade nei progetti targati Fiumara d’Arte. Presti aveva chiamato registi e filmaker perché pensassero a degli spot che avessero come protagonisti i bambini di Librino, la loro vita, la scuola, gli insegnanti,

il prato dove giocavano, i grattacieli dove vivevano, l’unico parrucchiere dove andavano per tagliarsi i capelli, il laboratorio di ceramica e quello di tessitura dove qualche donna passava il suo tempo tra aghi e fili, ma soprattutto i loro sogni. Era nato così uno straordinario repertorio di immagini, piccoli sketch della durata di sessanta secondi che raccontavano un intero mondo che mai ci si immaginerebbe di scoprire se si desse ascolto alle cronache che si raccontano di un Librino Bronx. E che invece è allegro, fresco, ironico. vitale. Riconoscersi in Tv, sapere che il proprio volto, i propri amici, che proprio quel mondo che in quello stesso istante corre sullo schermo di una casa di Librino va in onda a Catania centro, ad Acitrezza, nell’hinterland etneo, ha dato a quei bambini e a quella gente una forza inedita. Una dignità sconosciuta prima. Finalmente si era alla pari con gli altri. Anzi, si era in Tv, mentre gli altri erano a casa a guardarti!

Un sentimento nuovo che alcuni di loro avevano già conosciuto quando, anni prima, era arrivato un fotografo, Massimo Siragusa, a scattargli dei ritratti che poi erano diventati delle gigantografie, incollate alle pareti, sotto gli stucchi e quel che rimane degli affreschi settecenteschi, di Stesicorea. Qualche mese prima erano iniziate le attività promosse da Presti a Librino, gli incontri con i poeti, l’idea di intensificare i laboratori scolastici avvalendosi del contributo di nuovi talenti e nuove idee e i bambini avevano

cominciato a conoscere quello strano personaggio che voleva portargli i fiori, che chiedeva di entrare nelle loro case per sapere che rapporto avessero i loro genitori con la Bellezza. E quando poi questi stessi bambini erano stati invitati nella Casa d’Arte per il giorno dell’inaugurazione dove una delle installazioni era fatta con i loro ritratti, ci erano andati portandoci i genitori, non propriamente frequentatori abituali del centro di Catania, mostrandogli con orgoglio che loro erano i protagonisti di quella festa che si svolgeva addirittura a piazza Stesicoro, a Catania centro!

La popolazione più giovane di Librino, compresi gli studenti delle medie, ha beneficiato però di altri fiori. Nel 2004 Antonio Presti ha riattualizzato il Grand tour con cui a partire dal Seicento gli intellettuali dell’epoca scendevano in Italia per compiere il loro viaggio di formazione, nel quale il Sud rivestiva un ruolo non secondario. Era nato così viaggio in Sicilia… verso Librino, inizialmente pensato affinché ognuna delle nove province fosse toccata da uno scrittore internazionale, che poi terminasse il suo tour a Librino. Era lì, a quei ragazzi, ai loro genitori, che scrittori di fama internazionale dovevano riportare l’esperienza di quei giorni passati in Sicilia, non a scoprire rovine e a stupirsi della forza accesa della natura, ma a conoscere la verità del tempo di oggi, i guasti, le ferite e la bellezza. Per le solite ragioni di budget e per i limiti dell’organizzazione – per l’uno e per l’altra Presti si affida sempre a risorse proprie – anziché nove, gli scrittori sono stati sette: il messicano Paco Ignazio Taibo II a Gela, l’israeliano Meir Shalev a Catania, il russo Sergej Bolmat nella città e nella provincia etnea, l’algerino Rachid Boujedra a Caltagirone, il cileno Hernán Rivera Letelier a Enna, l’inglese Jonathan Coe a Palermo e la maliana Aminata Traoré ad Agrigento. In ogni città l’accoglienza e l’interesse sono stati vibranti, i ragazzi delle scuole hanno organizzato recite, danze, hanno prodotto disegni che hanno avuto per oggetto i temi dei romanzi dei rispettivi autori, i quali, a loro volta, erano coinvolti e travolti da tanto entusiasmo. Perché in territori dove non c’è niente basta poco per accendere gli animi e quelli siciliani, di animi, sono particolarmente infiammabili. Alla fine di quest’esperienza gli scrittori approdavano a Librino, dove il tutto si concludeva concettualmente e materialmente. Per quei ragazzi la loro presenza era cibo per la mente e la città satellite di Catania diventava la meta di un viaggio che aveva una forte risonanza mediatica – se ne interessarono stampa e televisioni – ma soprattutto interiore, non solo per i ragazzi, ma a volte anche per gli scrittori. «Sono partito bambino e in una settimana sono diventato uomo», ha commentato Jonathan Coe, tra verità e ironia, la sua permanenza a Palermo. Ma forse l’esperienza decisiva è stata che tutti questi illustri ospiti, come prima i poeti, terminavano il loro viaggio nelle scuole di Librino. Il fatto che uno scrittore di fama internazionale, un artista che aveva vinto premi ed era stato ospite nei vari angoli del globo arrivasse a Librino, faceva vedere la scuola, dove quei ragazzi passavano buona parte del loro tempo, sotto un’altra luce. Creava un senso di appartenenza, un’identità con quel luogo, una dignità, prima impossibile da visualizzare. La dignità è un punto di snodo decisivo nell’approccio a Librino e nella concezione della vita di Antonio Presti. Lui la traduce in termini di Bellezza, dove si incrociano, come spesso accade nelle sue imprese, un piano alto, speculativo, con uno popolare, empirico. “Io sono bello” è lo slogan che già all’inizio del 2000 accompagna le prime attività a Librino. Presti pensa finanche alla possibilità per gli abitanti del quartiere di scaricare immagini scattategli da fotografi di fama che, attraverso un complicato meccanismo, dovrebbero comparire sulle facciate cieche dei grattacieli. L’abitante di Librino, pensa lui, forse arriverà a dire «io sono bello», che significa «non sono quella feccia che dicono, ho diritto di cittadinanza in questo luogo». E soprattutto: «Io ho dignità di persona». E lo farà guardandosi in quei ritratti per la prima volta con occhi presumibilmente diversi, ma al tempo stesso riconoscendosi come abitante di quel luogo divenuto importante agli occhi altrui per la presenza di artisti, fotografi, scrittori e altre figure internazionali. E questo, se vogliamo, è il piano empirico. “Io sono bello”, quindi, come un mantra recitato da 100 000 persone e come metafora d’identità. La bellezza, il suo potere attrattivo e trascinante, come collante di appartenenza, sebbene in quest’idea convivano anche elementi spuri, perché sappiamo bene oggi quanto la concezione della bellezza sia inquinata da scorie di non autenticità, residui di ordine cosmetico. E di nuovo siamo sul piano empirico della faccenda. In ogni caso “io sono bello” è una metafora efficace, che attrae e incuriosisce e che si può dilatare fino ad affermare provocatoriamente che “Librino è bello”, che è quanto si legge nel centro di Catania in quei grandi pannelli gialli che pendono dalla finestre della Casa di piazza Stesicoro.

Ma torniamo a quel senso d’identità maturata in una scuola visitata da importanti scrittori. «Che fai, non ci dai da mangiare a questi ragazzi?», ha risposto un giorno Antonio Presti alla mia osservazione che forse rischiavano di essere troppi i progetti avviati a Librino e che, chissà, anche i ragazzi, i bambini probabilmente faticavano a stare dietro a quel bombardamento, sia pure positivo, di esperienze cui erano sottoposti. Perché, rimanendo nella metafora del cibo, a un certo punto, fra il 2005 e il 2006, si erano trovati a gestire un progetto dal titolo Il pane non si butta. In realtà si trattava di bandiere, bandiere etiche per la precisione, anzi di quel che restava di queste dopo che erano state dapprima messe in mostra al Monastero dei Benedettini nel 2005, frutto del lavoro di 50 scuole a cui per la prima volta avevano collaborato quelle di Librino e quelle del centro di Catania. Erano il risultato del progetto 500 bandiere per essere città, che dopo erano state smontate e reinstallate per quattro mesi sui pali dell’asse dei servizi, la tangenziale della città etnea e alla fine, consunte, erano state cucite in patchwork ed esposte nelle scuole. Il pane non si butta, appunto. Ma, anzi, emigra. Perché l’anno dopo, nel 2007, e per tre anni di fila, quegli studenti le bandiere etiche le hanno collocate all’ospedale vittorio Emanuele di Catania e al Policlinico di

Palermo, mentre altre 150 scuole, tra Palermo e provincia, sono state messe a lavoro per produrre mille bandiere. Il tema, questa volta, era uno solo e si trattava di un’altra idea per ancorare l’arte a una dimensione pubblica e sociale, per farne una possibilità d’esistenza diversa, e accessibile a molti. Il tema era l’acqua, che a Palermo ha la forma di un fiume rimosso oltre che degradato: l’Oreto. L’obiettivo era ripristinare le condizioni originarie di questo fiume: un corso d’acqua che, nascendo da una sorgente situata ad Altofonte, paese tristemente noto per l’efferato omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, rapito e sciolto nell’acido da componenti del clan Brusca, scorre per pochi chilometri e arriva alla periferia di Palermo dove per anni è stato usato come discarica a cielo aperto e scelto dalla mafia per nascondervi le armi.

A Palermo, quindi, il fiume Oreto, da pura sorgente che pare uscita da una pittura di paesaggio settecentesca e che dà da bere a tutto Altofonte, diventa sporco, un torrente putrido e limaccioso. Attraverso il progetto delle bandiere Io sono acqua e Io sono il fiume Oreto dell’umanità, nelle quali il degrado del fiume è stato preso a simbolo dell’inquinamento che la  mo hanno scoperto l’esistenza di questo fiume, di cui in città si evita di parlare. I ragazzi sono andati sul greto, lo hanno guardato e hanno cominciato a desiderare che fosse diverso. Ma soprattutto lo hanno riportato dentro il loro orizzonte di vita.

La Porta della Bellezza

Tredici opere e altrettanti artisti, 9000 forme in terracotta, 12 testi poetici, 500 metri di lunghezza, nove scuole, quasi un anno di lavoro e soprattutto 2000 bambini. Forse, meglio di questi numeri, la storia della Porta della Bellezza, che dal 15 maggio 2009 introduce a Librino, la raccontano i disegni di quelle novemila formelle realizzate dai bambini. Ci sono alberi, fiori, tanto sole, a volte la luna e tante, tantissime dichiarazioni d’amore alla propria mamma. “Ti voglio bene”. “Cara mamma, ti voglio tanto bene”.

E queste sono solo alcune delle perfette geometrie create dai piccoli con le terrecotte collocate sotto l’opera di un artista. Se si va appena oltre con lo sguardo, ecco che compaiono i ritratti di quelle madri e somigliano ai volti di una delle ultime versioni delle Demoiselles d’Avignon di Picasso, ma sicuramente chi li ha disegnati sa poco o niente di Picasso. E ancora, avanti, ecco gli autoritratti, sono tantissimi, ciascuno con il suo nome, niente Giulia e Lorenzo, ma Salvatore, Antonio, Jessica, Roberta, Maria, Nino, Lorella, Giovanni. Nomi che si sentono poco in giro per l’Italia, di origine metà siciliana e metà televisiva, veri. Poi altre formelle sotto una Sicilia stilizzata, altre sotto una grande “cellula” che racconta la trasformazione e altre ancora sotto i quattro elementi da cui nasce la vita: aria, terra, acqua e fuoco.

Non so se sia vero quello che dice Antonio Presti, e cioè che si tratta della più grande opera pubblica all’aperto, ma so con certezza che è un’opera corale di straordinario impatto emotivo, forse non bella secondo i tradizionali canoni estetici, e di cui discuteremo tra poco, ma che colpisce l’occhio, cattura il cervello, ferma per un istante le emozioni e chiede rispetto. Per la prima volta in Italia, 13 artisti hanno lavorato con 2000 bambini, ogni giorno, per nove mesi, dentro le loro scuole trasformate in laboratori permanenti di terracotta. Con le maestre che sospendevano le lezioni e consentivano ai bambini di lavorare a quelle formelle il cui tema era La Grande Madre «perché avere dalla propria parte le madri, avere i loro figli, significa avere in prospettiva il futuro di questo quartiere, ma a partire da questo preciso istante», spiega Presti. La Porta della Bellezza, nata nell’ambito del progetto TerzOcchio – Meridiani di luce, è il primo manufatto riconoscibile in questa lenta avanzata nel ventre di un quartiere cosiddetto a rischio. Ma la valutazione di quest’opera, che ha trasformato un viadotto anonimo – appena finisce l’azzurro intenso ricominciano erbacce, si riaffaccia la discarica, mentre le aiuole davanti raccontano ancora l’abbandono – in un ingresso colorato, non deve limitarsi all’impatto emotivo, sia pure molto forte e ulteriormente rafforzato pensando allo sforzo organizzativo, alla dedizione totale di alcune persone, come è sempre nelle iniziative di Antonio Presti. Iniziative che sono doni, non solo in quanto sostenuti da risorse private, ma anche perché, per realizzarle, c’è qualcuno che fa letteralmente dono di sé.

E c’è dell’altro: la Porta della Bellezza solleva molte questioni legate all’Arte Pubblica. Che cosa significa bellezza oggi, quali sono i valori estetici in cui si riconosce una collettività, che cosa si deve intendere per valore condiviso? Si tratta di domande cruciali, rese tali dall’azzeramento dei canoni estetici tradizionali che l’arte contemporanea ha prodotto, proponendone talvolta di nuovi, sebbene molto incerti e sfibrati, privi di una centralità riconosciuta, e altre volte rimanendo in una posizione che, almeno in apparenza, potremmo giudicare nichilista, dove cioè la critica distruttiva, necessaria perché un certo mondo e soprattutto certi vincoli venissero meno, ha avuto la meglio. È su questo terreno che si situa l’Arte Pubblica che spesso si trova nella complicata situazione di dover definire, e di farlo in corso d’opera, dei nuovi valori che siano accettati e condivisi dagli attori che realizzano in prima persona questa arte. Si tratta quindi della mediazione, ma a volte della possibile collisione, tra la dimensione pubblica e quella estetica, tra qualcosa che per definizione è plurale e qualcosa che, almeno dal punto di vista dell’etimologia filosofica, tende invece verso il singolare, essendo il giudizio estetico, come diceva Kant, soggettivo e insindacabile.

Ora, nei diversi esempi che abbiamo di Arte Pubblica emerge che spesso il valore estetico si traduce in valore condiviso, con uno slittamento quindi che va dalla dimensione singolare a quella plurale in cui, parallelamente, il gesto preciso, circoscritto nel quale si esprimeva quel valore si trasforma oggi in un’attività processuale. E in quest’ultima emerge di nuovo una dinamica che oltrepassa la singolarità a favore di una pluralità, non tanto di ordine quantitativo, ma qualitativo. È su questa fenomenologia che occorre riflettere avendo a che fare con Librino, così come, direi, con altre realtà di Arte Pubblica. Ed è a partire da qui che si può descrivere di nuovo l’idea della bellezza. Più che un concetto astratto, o che trova espressione in un manufatto posto all’interno di una chiesa, di un museo, ma anche in una piazza, se questa è stata costruita per ospitare un dato monumento, sempre di più, oggi, nelle pratiche dell’Arte Pubblica, la bellezza acquista un valore concreto, come risultato di un fare collettivo che non si esaurisce nell’opera, come accadeva fino a poco tempo fa, in un “bello” meramente identificabile in “qualcosa”, ma che coinvolge e si dilata in una dimensione temporale estesa, che oltrepassa quel fatto conchiuso in se stesso, implicando le azioni che lo hanno preceduto e le ricadute che da esso si determinano. Sono queste ad assumere lo stesso valore, se non addirittura un valore superiore, di quel fatto in cui generalmente si riconosce il gesto artistico. È in questo fare collettivo, in questa bellezza che acquista una fisionomia concreta, dove, elemento determinante, è la possibilità di riconoscersi come parte in causa, attore in prima persona e non destinatario passivo, che avviene quel salto di qualità in cui, finalmente, si modellano dei nuovi valori che traggono la loro forza da una pratica di condivisione.   questa, indubbiamente, è l’Arte Pubblica nel migliore dei mondi possibili, non sempre, però, confortata dalla verifica con la realtà. Il lavoro sul territorio, l’azione dal basso che molti curatori invocano come le giuste coordinate in cui iscrivere un progetto di Arte Pubblica sono, in realtà, le conquiste più difficili da raggiungere. Da questo punto di vista, penso che l’esperienza di Librino sia un laboratorio di eccellenza, perché lì si sono realizzate quasi tutte le premesse indispensabili per la riuscita di un’azione di Arte Pubblica. C’è stato il coinvolgimento degli abitanti che, da destinatari, sono diventati soggetti attivi del processo artistico. C’è stato un fare, in cui, come s’è detto, si è concretizzata la bellezza, che a Librino assume, come aggiunge Presti, anche valore politico e civile: quello di un “altro” fare, oltre i percorsi obbligati della mafia e dell’antimafia. qualcosa

che la gente, quella con cui si riempiono le piazze televisive, ma che a Librino è in carne e ossa, può forse imparare.

«Per avere diritto di cittadinanza, per esistere, la gente deve fare, non chiedere il recupero che legittima implicitamente la logica del disagio su cui si regge l’identità di tutte le periferie del mondo» afferma Presti. È maturata, o sta maturando, un’identità del luogo nata da quel fare, dal fatto che la gente di Librino forse ha cominciato a credere nella possibilità del cambiamento, sia pure tra dubbi e disillusioni, vinti però, così mi è parso, dall’entusiasmo. Dal volerci credere. A Librino, come nei più felici progetti di Arte Pubblica, è stato sfruttato il potere trasformativo dell’arte, cambiando un viadotto degradato in una solare porta azzurra che sembra promettere una vita migliore.

«Il muro è brutto? E noi lo facciamo diventare bello. E da muro che chiude lo trasformiamo in porta che apre», diceva Presti agli abitanti del quartiere presentandogli il progetto della porta. La verità di tutto questo ha un’unica e inattaccabile dimostrazione: dopo tre mesi – l’ho vista l’ultima volta a fine agosto del 2009 – la Porta della Bellezza era intatta. Inviolata. Le 9000 formelle erano ancora tutte lì, come se fossero state completate il giorno prima. Il perché di questa straordinaria manutenzione risiede nel semplice fatto che il lavoro degli artisti è protetto dai bambini e dalle madri coinvolte e, a partire da loro, è accettato dalla stragrande maggioranza del quartiere. Si tratta di un presidio forte a difesa di qualcosa, ma soprattutto di un sogno, che potrebbe essere molto fragile, molto attaccabile, ma che non lo è perché prima i bambini e poi le madri e poi, si spera, tutti gli altri si riconoscono in quest’opera collettiva: “Io sono bello,

Librino è bello”. quello che poteva sembrare lo slogan di un pazzo visionario rischia di diventare sul serio un mantra collettivo capace di rovesciare la realtà. Rispetto a queste qualità, ha molta importanza il fatto che non vi siano nomi di garanzia, nomi forti di artisti internazionali, italiani e stranieri? È una domanda che mi sono posta varie volte e alla quale, intanto, rispondo dicendo che, purtroppo, non so quanti artisti che amano definirsi di Arte Pubblica avrebbero accettato di passare mesi e mesi in laboratori ricavati dalle scuole, con i tempi di un lavoro artigianale, a contatto con centinaia di bambini, a Catania, anzi a Librino. Gli artisti che vi hanno lavorato sono quasi tutti catanesi, abili nella terracotta, ma non particolarmente in vista sulla dorata scena dell’arte. Ciò che hanno realizzato insieme ai bambini di Librino, a mio parere, va oltre il criterio tradizionale della bellezza per rifondarne un altro, facendoci capire, intanto, che anche questo canone non è dato una volta per tutte, ma è aggiornabile in tempo reale. E non è distante dalle nostre vite, ma vi rientra a pieno titolo. Insomma, la Porta della Bellezza, che forse non è bella per palati sofisticati e acculturati alla fredda smaterializzazione dell’Arte Concettuale, è una mina lanciata nel grande, e a volte molle, ventre dell’Arte Pubblica. È un punto interrogativo piantato nel cuore dell’Arte Relazionale. qualcosa con cui bisogna fare i conti, che apre una sorta di vertenza nell’arte, specie oggi, dopo qualche decennio in cui il problema del bello è stato messo da parte per favorire un approccio sociale che però spesso si è accontentato di poco, che è parso essere un po’ anoressico. Lì, a Librino, c’è invece molta abbondanza: materica e sentimentale. C’è una promessa di futuro. L’estetica, ritiene Presti, verrà dopo, in un secondo momento. Più importante, ora, è che il sogno prenda corpo e che a incarnarlo siano i bambini, con le loro forme ingenue, i loro segni grezzi, l’aiuto degli artisti che ci stanno.